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La scelta di Enea terzo capitolo del libro di Luigi Maria Epicoco

La vecchiaia e cultura contemporanea

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Se la caratteristica della vecchiaia non è nella sua problematicità – infatti tutte le stagioni della vita portano con sé il tratto della problematicità – perché nella società contemporanea la vecchiaia viene percepita come uno scarto, come qualcosa da nascondere, o di cui poter fare a meno? (..) Con frequenza la percezione negativa della vecchiaia come un tempo di scarto e non come un tempo necessario alla stessa vita umana nasce dal fatto che negli ultimi secoli abbiamo cominciato a misurare la vita non più con la vita ma con l’utile.

Ogni vita umana percepisce la propria preziosità a partire dal proprio utile, cioè da ciò che produce. Finché l’uomo è in grado di produrre qualcosa, e quindi di far funzionare un meccanismo economico che si struttura proprio attraverso un meccanismo di bisogno e produzione, allora la vita viene percepita come vita utile, come vita preziosa. Ma non appena la nostra vita non è più in grado di funzionare, cioè di rientrare in questo meccanismo produttivo, inevitabilmente viene percepita come scarto, come peso, come qualcosa da tollerare e allo stesso tempo da parcheggiare, da mettere in disparte, in attesa che il problema possa essere risolto attraverso appunto l’esperienza della morte.

Alcune strutture sanitarie, ad esempio, hanno come scopo proprio quello di aiutare e umanizzare la vita delle persone nel tempo della vecchiaia, ma altre sono pensate non come aiuto bensì come soluzione per la società che non sa cosa farsene dell’anziano e per questo lo relega, lo ghettizza in un luogo allontanandolo dalla vita stessa, cioè staccandolo da quella che dovrebbe essere la connessione generazionale. (…) Se i vecchi, gli anziani al giorno d’oggi possono essere percepiti o come un peso o come un business, in entrambi i casi non si è colta l’opportunità sottesa a questa stagione della vita, che ha bisogno di ritrovare connessione con il resto dell’esistenza e aiutare l’esistenza stessa a progredire, ad andare avanti, a umanizzarsi nel vero senso della parola.

(…) Quali sono le caratteristiche della vecchiaia che la società cerca di rigettare con tutte le proprie forze. Innanzitutto il decadimento del corpo. In un mondo come il nostro che è dominato da una cultura dell’apparenza, il culto del corpo ha preso il sopravvento rispetto anche alla cura della propria interiorità, della propria anima, cioè a quella parte di noi che ci fa differire in maniera significativa da tutti gli altri esseri viventi. Se il corpo diventa il tutto di una vita, allora il suo decadimento è vissuto sempre come una tragedia. Se il difetto del corpo, il suo invecchiamento, è qualcosa che va nascosto, celato, cambiato, migliorato, manipolato, allora il corpo non è più semplicemente un’opportunità della vita umana di diventare sempre più umana, ma è invece un idolo da difendere e a cui sacrificare anche la propria umanità. (…) Il corpo diventa così un teatro, un palcoscenico da cambiare a proprio piacimento pensando che in questo modo avremo come risultato una pace con noi stessi e un’accettazione da parte degli altri. (…) Il tempo dell’anzianità è quindi anche il tempo in cui siamo costretti ad accettare il decadimento di ciò che si vede di noi, di quel corpo divenuto culto che molto spesso ha attraversato tutta la nostra vita e in molte situazioni ha preso il posto anche della nostra interiorità. Ciò che si vede di noi diventa più importante di ciò che siamo realmente e a volte non sappiamo rispondere alla domanda sulla nostra identità. Ostentiamo però il nostro corpo come se fosse la nostra identità. Ma la verità è che noi abbiamo un corpo e non siamo invece solo corpo. Quando l’identità umana coincide soltanto con la corporeità è normale vivere come una tragedia il suo decadimento. Quando invece ci si accorge di avere un corpo senza identificarsi rigidamente con esso, allora si riesce a esercitare nei suoi confronti una cura. Possiamo accogliere ciò che abbiamo, ma in verità non possiamo cambiare ciò che siamo. Possiamo scoprire la nostra identità e allo stesso tempo aver cura di ciò che ci viene consegnato in questa vita.

La corporeità è qualcosa che è affidata alla nostra responsabilità, e se c’è una stagione della vita in cui il nostro corpo può esprimere il massimo della sua vitalità, rimane sempre un alleato prezioso anche quando non ci risponde più pienamente, non è più corpo perfetto, non è più corpo che corrisponde ai canoni estetici della cultura dominante. Proprio in quel momento ha bisogno di essere accolto così com’è, accompagnato, custodito.

La vecchiaia e la cultura contemporanea

La seconda caratteristica che porta con sé la vecchiaia è l’esperienza della debolezza. Proprio in quel tempo della vita in cui le forze cominciano a diminuire, ci accorgiamo di essere deboli. La debolezza non è un dramma in sé, ma lo diventa quando è perdita di autonomia, quando è debolezza che ci consegna nelle mani degli altri. (…) Siamo sempre molto spaventati nella perdita dell’autonomia, così la debolezza diventa un problema quando ci ricorda di avere bisogno degli altri, di non poter più fare a meno dell’aiuto altrui. Tante volte nelle persone anziane c’è il rifiuto della debolezza e la difesa a oltranza dell’autonomia, che se da una parte è un grande aiuto per conservare carattere e forza di fronte alla vita e ad alcune circostanze difficili, dall’altra può prendere il sopravvento nella forma di un rifiuto di accettare di non poter fare più le stesse cose di prima, di non avere più la medesima attenzione, di non avere più la stessa resistenza e di dover fare così i conti con una misura del proprio corpo che è completamente diversa rispetto al passato. Ma cogliere la propria debolezza non significa deresponsabilizzarci. Infatti, se da una parte dobbiamo accettare di non avere più la medesima forza, allo stesso tempo dobbiamo domandarci che cosa è diventata la nostra forza, qual è la misura del nostro possibile ed esercitarlo finché possiamo, senza delegare e senza lasciare che gli altri si sostituiscano in toto alla nostra capacità.

È la stessa dinamica di un bambino piccolo che impara a camminare. Se un adulto supplisce a questa difficoltà prendendolo costantemente in braccio non lo aiuta a tirar fuori tutto il potenziale che ha. È proprio in quell’arte di essere presente e allo stesso tempo di lasciar fare che il bambino sviluppa la sua capacità di camminare. Allo stesso modo un anziano va accompagnato, ma non ci si può sostituire definitivamente al suo possibile. La vecchiaia è il tempo in cui dobbiamo imparare di nuovo qual è il nostro possibile e cercare di viverlo fin dove riusciamo, e difenderlo anche con tutte le nostre forze. La difesa di quel possibile è la difesa della propria dignità.

In terzo luogo dovremmo dire che, soprattutto nei paesi più sviluppati, l’allungamento dell’aspettativa di vita ha fatto sì che l’uomo incontrasse una parte inedita della propria corporeità. Ad esempio, l’aumento di malattie ne neurodegenerative soprattutto negli anziani, benché presenti anche nel passato, oggi assume dimensioni molto più ampie. L’allungamento della vita media, ad esempio, comporta l’emergere di patologie che coinvolgono il funzionamento della mente stessa. È proprio questo che ci spaventa, arrivare a un momento della vita in cui non si ha più il controllo della mente. La perdita della ragione, della nostra consapevolezza, diventa l’esperienza di una debolezza su cui non esercitiamo alcun controllo.

Questo timore, assieme alla paura del dolore, molto spesso è alla base della richiesta dell’autodeterminazione della propria morte. Ma la vera domanda dovrebbe essere questa: può l’anticipazione della morte essere la soluzione a queste due paure? Una società può dirsi pienamente civile e pienamente umana se è capace di rendere possibile l’autodeterminazione della propria morte oppure quando trova forme di cura, di accompagnamento, di supporto a simili esperienze di debolezza e quando sviluppa modalità per la gestione del dolore come le cosiddette Cure Palliative? Il dolore, anche se è un’esperienza che si presenta alla nostra vita, non può essere mai accettato come qualcosa di inviolabile. Il dolore deve essere lenito. Ma una cosa è poter lenire il dolore, un’altra è pensare che la morte possa essere la soluzione alla sofferenza stessa. Allora le parole accompagnare, sostenere, curare, umanizzare, lenire sono ciò che aiuta l’uomo nel tempo della vecchiaia a poter accogliere anche la paura di una debolezza che tocchi la mente o di una sofferenza che può diventare insopportabile.

Tratto da Luigi Maria Epicoco LA SCELTA DI ENEA – Edizioni Rizzoli 2022 pag. 86 e ss. – Riduzione e adattamento del testo di Grazia Dalla Torre

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