Verso la fine della Seconda guerra mondiale, nel paese di Vermiglio, un villaggio di montagna in Trentino-Alto Adige, veniamo a far parte della famiglia del maestro Cesare, costituita da lui, la moglie e i loro sei figli (un settimo in arrivo). La vita di tutti si svolge con tranquilla regolarità fra l’accudire le mucche, andare a messa la domenica, mentre ogni mattina Cesare impartisce le sue lezioni in una classe unificata di ragazzi e ragazze di varia età.
Fin dall’inizio e poi più volte nel seguito, il film ci mostra stupendi paesaggi montani di Vermiglio, all’inizio coperti di neve che poi, man mano che si sviluppa il racconto, volgono verso la primavera e l’estate. Ma il film non si orienta al lirico bensì al realistico, quasi all’etnologia. La realtà di una numerosa famiglia contadina, seduta intorno alla mensa, che recita la preghiera di benedizione dei pasti e poi, in silenzio, tutti iniziano a svuotare quel poco che c’è nel piatto.
In questa visione, che possiamo definire storica, obiettiva, vengono evidenziati pregi e difetti del tempo, senza calcare polemicamente la mano su comportamenti che, con la sensibilità di oggi, possiamo considerare sbagliati. La vita di questi montanari è raramente solitaria ma piuttosto corale. Si svolge in casa, nei campi o in chiesa la domenica dove piccoli e compunti chierichetti sanno declamare intere preghiere in latino; durante la festa di Santa Lucia quando tutta la popolazione, cantando, segue l’asinello cavalcato dalla bambina che rappresenta la santa; al bar di Vermiglio dove gli uomini si ritrovano a commentare gli ultimi avvenimenti o nell’unica aula della scuola, dove Cesare, fronteggia ragazzi e ragazze di età diverse, invitandoli a parlare in italiano e non in dialetto.
Cesare si distingue non solo perché è il riconosciuto e rispettato pater familias ma perché è l’unico che ha cultura e quindi è l’unico che sa esprimere idee, manifestare gusti culturali.
La sua cultura “alimenta” anche i più piccoli che restano ammirati dagli atlanti geografici a colori che arricchiscono la sua biblioteca (l’unica presente in casa) ma poi esercita freddamente la sua potestà paterna, quando sceglie, insindacabilmente, chi dei suoi figli e figlie può proseguire gli studi e chi no. Diventa disumano quando infierisce nei confronti di quel suo figlio che non studia e si mostra insensibile quando lo stesso dottore gli fa notare che per sua moglie nove parti sono troppi. Lui e lui solo può permettersi di tenere nascoste nel suo cassetto riviste pornografiche.
Al di sotto di questa “struttura portante” della famiglia si muovono quelle figlie che sono ormai giovani donne. Loro parlano poco, non ragionano come il padre ma piuttosto “sentono”. Delle tre figlie, Lucia si innamora di un soldato siciliano che ha trovato rifugio nella loro casa, Ada ha un animo conteso fra misticismo religioso e pulsioni sessuali (a causa della visione rigorista di quel tempo); solo Flavia si alimenta con i suoi studi e viene autorizzata dal padre ad andare in collegio.
Maura Delpero, regista e sceneggiatrice, risulta bravissima nel costruire questo universo chiuso e nel dirigere degli attori non professionisti (ad eccezione di Tommaso Ragno, molto bravo anche lui) e a immettere nella storia tanta sensibilità femminile. Lo si vede quando fa parlare i bimbi e le bimbe piccole che chiedono sempre qualcosa e sono pieni di fantasia; quando Lucia, ormai madre, stringe a sé il suo piccolo; quando ci racconta le insicurezze adolescenziali delle tre ragazze. Un discorso a parte merita il padre Cesare (molto probabilmente immagine del padre della regista): verso di lui c’è ammirazione per la sua preparazione culturale, per il suo atteggiamento mai violento, ma anche condanna per la sua insensibilità verso le istanze femminili.
Leone d’argento alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia 2024. Candidato all’Oscar 2025 come miglior film straniero.
Recensione a cura di Franco Olearo – Family Cinema TV