Il primo articolo a firma del Sociologo dell’Università di Bologna prof. Riccardo Prandini apre il dibattito su “Carta Alleanza per le Persone Anziane vs COVID 19“.
La pandemia della Covid-19 sta mostrando come gran parte delle certezze “date per scontate” – in generale sui fondamenti della nostra vita sociale e, in particolare, sulla cura della salute delle persone – fossero garantite da una “normalità” che non ritroveremo uguale a com’era, dopo che la fase più drammatica dell’epidemia sarà passata.
Alcune di queste certezze sono state scosse dalle fondamenta e ci pongono, obbligatoriamente, di fronte a una ricostruzione.
Il fatto che l’aiuto e la cura possano venire dalla relazione interpersonale è evidente: ma la tecnica del social distancing ci ha messo di fronte a qualcosa di letteralmente inaudito. L’altro, nella sua carne e nel corpo, va tenuto a distanza, perché – inconsapevolmente – può trasmetterci il male.
La visione delle nostre città, vuote di relazioni, ne è una drammatica testimonianza.
Il fatto che le strutture sanitarie e l’organizzazione scientifica dei servizi, soprattutto ospedalieri, fossero il baluardo contro ogni “pericolo” – comunque pensato come domabile dalla tecnica – rappresentava quella sicurezza che, catastroficamente (almeno in certi luoghi), si è trasformata nell’“insicurezza” assoluta; quella di venire infettati proprio laddove e da chi dovremmo essere salvati. L’evidenza che i rapporti tra le generazioni rappresentassero la normale “staffetta” esistenziale che riproduceva la Società è stata affondata dalla fragilità stessa degli anziani, ora da tenere separati dai giovani, finanche dentro al luogo simbolico più “abituale” del riposo e della sinecura: la casa. Per non dire dell’impossibilità di accompagnare gli ultimi attimi di vita di molte persone, prevalentemente anziane ma non solo, addirittura di non poter neppure loro garantire un rito funerario degno degli umani.
A questo sgretolamento delle certezze – in un primo momento e quasi come si trattasse di un vero e proprio lapsus – è corrisposto un atteggiamento di difesa, di esclusione dell’altro, di separazione dai malati, che ha fatto emergere una vera e propria “formula magica” utile a scacciare la paura: ad esorcizzare il male con un male maggiore. Questo terribile e inaudito “non detto” suona come una credenza “sacrificale” che sembra giungere da un passato che avevamo dimenticato e che il cristianesimo aveva combattuto. Perché qualcuno viva, qualcuno deve essere sacrificato.
Chi va sacrificato è il debole, la vittima, lo scarto: l’anziano fragile con più patologie. Sulla Croce, invece, la civilizzazione aveva per la prima volta voltato le spalle al “sacrum-facere”: il crocefisso era quel “dono” incondizionato che aboliva la sacrificabilità degli esseri umani.
È allora ripartendo da questi veri e propri terremoti di civiltà, queste catastrofi del senso, che forse potremo, in futuro, ripensare la nostra convivenza e la cura della salute di ogni singola persona che ne è parte.
La pandemia ci ha posto una domanda semplice: la Carta Alleanza per le Persone Anziane – con i suoi principi e le sue finalità – ha qualcosa da dirci sul futuro che a breve arriverà e che già da ora dobbiamo preparare o è mera retorica senza impatto sul reale?
Le risposte che ci sentiamo di dare, in termini abbozzati e sintetici, sono altrettanto semplici e precise, seppure ancor più precisabili.
- In primo luogo, e prima di tutto: gli anziani fragili, come ogni persona fragile (anche non anziana), non sono sacrificabili e neppure sono un “peso” di cui liberarsi alla bisogna. Non sono merce di scambio. L’etica della cura, della prossimità e dell’accompagnamento fino all’ultimo respiro, rimangono beni “irrinunciabili”, pena la perdita dello sguardo umano su di noi e sugli altri.
- La personalizzazione delle cure. Il distanziamento sociale ci ha mostrato come la socialità possa essere declinata in medium diversi. “Distanziamento” non significa “separazione” o “allontanamento”. La crisi ha mostrato come l’interazione tra persone, con i loro corpi e in presenza, può essere “sospesa” momentaneamente per forze di causa maggiore. L’interattività, invece, attraverso le tecnologie comunicative, ha salvato il nucleo specifico della socialità: la comunicazione, il “porre-in-comune”. Attraverso la comunicazione ci si può fare prossimi, anche in assenza fisica. Questa personalizzazione mediata andrà certamente potenziata in futuro, mettendo a disposizione forme di telemedicina, di sostegno psicologico a distanza, di allerta e segnalazione di situazioni di difficoltà in remoto. Le case, le persone, i luoghi diventeranno terminali di comunicazione e non semplicemente fonti di Big Data. Ogni persona, come la malattia ha dimostrato, risponde in modo diverso. Senza questo “sguardo” alla singolarità personale non vi è vera medicina possibile: solo tecniche standard applicabili a sistemi biofisici. Personalizzare significa, al contrario, riconoscere le domande di benessere espresse dal paziente, rispondendo in modo sensato mediante le cure e le tecniche più adeguate e rispettose della sua umanità. La malattia, come la cura, per gli esseri umani, vivono nel medium del “senso”: danno e tolgono significato alla vita dello spirito. Un enorme lavoro dovrà essere fatto per costruire percorsi personali di cura.
- La co-produzione delle cure. La pandemia ci ha abituato a immagini di corpi inermi, intubati, passivi. Ma questa è solo la punta dell’iceberg del fenomeno. Molto più potente è stata la collaborazione e co-operazione attiva tra pazienti, medici, infermieri, scienziati, cittadini. La risposta alla crisi ha visto come protagonisti nuove e impreviste comunità di aiuto: dai piccoli negozi di quartiere, alla spesa fatta dal vicino; dall’aiuto dei volontari, alla costruzione di ospedali da campo; fino alla chiacchierata dal balcone e ai medici di famiglia che telefonano a casa. Questa enorme capacità di resilienza è già “cura” ed è assolutamente co-prodotta. Anche laddove si è trattato di ricovero in ospedale, la co-produzione è stata immensa, mostrando una creatività e innovatività incredibili. In ogni caso in futuro sarà tutta la società con le sue diverse organizzazioni a dover farsi sensibile alla generazione e mantenimento “sociale” della salute. La salute sarà un “bene” di cui ognuno dovrà farsi carico e prendersi cura. La rilevazione dei “nuovi” bisogni di benessere e il disegno-erogazione-valutazione dei servizi che danno risposte dovranno essere pensati attraverso la co-produzione che si basa sul riconoscimento che ogni parte del sistema della cura possiede ed elabora un sapere-comune che va valorizzato entro un quadro di ascolto e aiuto reciproci.
- Tutto questo ci porta ai territori. Lo scenario che caratterizzerà il futuro delle cure e dell’assistenza agli anziani ha a che vedere con la “localizzazione” del sistema di intervento, intesa come territorializzazione delle cure dove diversi attori costruiscono reti e partnership a confini mutevoli sulla base di specifici progetti comuni. La crisi pandemica ha mostrato come affidarsi solo agli ospedali – e all’eroismo dei sanitari che vi lavorano – pur se necessario non è sufficiente. Il territorio andrà completamente ripensato, rafforzando tutte quelle innovazioni che da tempo circolano, ma che non hanno mai trovato una vera sistematizzazione. Occorrerà infra-strutturare i luoghi della cura con centri multiservizio di continuità assistenziale, degenze di comunità, reti di poliambulatori, assistenza domiciliare socio-sanitaria a distanza, counselling familiare e via dicendo. Le sigle e i nomi di questa infrastrutturazione possono variare, ma il senso è identico: costruire territori pieni di “nodi delle cure” capaci di connettersi e sconnettersi alla bisogna. Il territorio dovrà garantire un senso di protezione, attraverso confini ben stabili e controllabili, ma anche di apertura a chi ha bisogno: dovrà miscelare interazione con presenza umana e interattività mediata dalle tecnologie; autonomia operativa e capacità di collaborazione. La territorializzazione aprirà la partecipazione a tutti i tipi di attori, della pubblica amministrazione, private e di terzo settore, con le imprese sociali che troveranno spazio per una loro definitiva esplosione, ma anche quelli che non possiedono risorse certificate o monetizzabili, quali le famiglie, le associazioni di utenti, i volontari, etc.
- L’innovazione sociale. Fare innovazione sarà un obbligo perché i vecchi “mindscape” non serviranno a molto. Con innovazione si intende a) una gamma d’attività e di pratiche orientate a soddisfare bisogni; b) lavorando su nuove pratiche sociali, assetti istituzionali e/o nuove forme di partecipazione; c) laddove i suoi effetti si estendono oltre l’immediato soddisfacimento dei bisogni. L’innovazione può essere governata mediante uno “sperimentalismo democratico”, dove prima i progetti di sistema vengono prima discussi dai diversi stakeholder entro un’arena di discussione regolata; poi “implementati” in modo diverso e vario nei differenti territori; infine rivisti collettivamente nell’arena di discussione in modo che le buone pratiche possano essere copiate e possano diffondersi tra i territori.
- Sulla base di questi principi la Carta Alleanza per le Persone Anziane enuclea quattro finalità specifiche:
- la ricerca di nuove logiche di sostenibilità economica, sociale e culturale dei servizi e delle cure agli anziani fragili;
- l’advocacy sociale per la condizione della anzianità fragile – azione di rappresentanza degli anziani fragili e dei loro contesti di vita;
- lo sviluppo di reticolazioni tra attori sociali plurali e attivazione dei territori;
- progettazione e realizzazione di ricerche e di servizi innovativi.
Ognuna di esse non solo è centrale per la ripresa post-pandemica, ma assume ancora di più rilevanza.
Riccardo Prandini
Prof. di Sociologia – Università di Bologna