Abbiamo avuto il piacere e l’onore di intervistare Luca Lodi, autore del romanzo “Lunafasia – La magica notte di un OSS”. Nel video, un breve riassunto del romanzo attraverso le parole dell’autore e successivamente la nostra intervista.
1. Luca, in una tua intervista hai dichiarato che “Lunafasia” è stata un’esigenza. Puoi approfondire questo concetto?
Rinnovo la verità raccolta in quella intervista: Lunafasia è stata un’esigenza. Esigenza nel voler approfondire delle intuizioni, volontà nel concretizzare i discorsi con colleghi volti alla ricerca di senso nel nostro operato, ma soprattutto voler portare intuizioni dissonanti col sistema organizzativo attuale e che in qualche modo potessero generare dibattito e perché no? anche cambiamento. Lunafasia non rappresenta il mio romanzo d’esordio, ma premeva per nascere. È stata un’esigenza in questo senso. Molte volte quando si scrive non lo si fa per gli altri, ma per sé stessi. Questo romanzo è nato nell’intimità di percezioni per poi trovare la forza di voler raggiungere i lettori.
Ognuno è stato toccato in modo diverso, ha colto alcune sfumature e si è emozionato. Più grande complimento non esiste per un autore: saper di aver toccato le corde emotive del lettore. A distanza di tempo posso dire che la mia esigenza ha trovato una concretezza che ha toccato, e che tocca, le corde dell’emozione e la coscienza dell’essere professionisti.
2. Puoi raccontarci come il tuo romanzo è stato accolto dagli operatori che, come te, vivono a stretto contatto con gli anziani?
Il romanzo è stato accolto con interesse. In molti si sono rispecchiati in diverse narrazioni. Durante la trama tratteggio oltre a Camillo, OSS protagonista, altre due figure comprimarie. Berenice, infermiera metodica e precisa, talmente professionale da ricordare terapie, numeri di camera e patologie, ma completamente distaccata dall’incontro con la persona anziana. Stesso risultato lo si trova con Jennifer molto social, con lo smartphone sempre in mano, ma poco sociale. E infine il nostro Camillo professionale ed empatico. Capace di abbassarsi per trovare sguardi chini dal peso dell’età. Nelle schede di approfondimento esplicito che noi operatori: professionisti della cura, funamboli dell’imprevisto… siamo un mix dei tre personaggi. A volte più Berenice portati a essere ineccepibili nella compilazione di registri o vanesi come Jennifer con la testa altrove. Spesso siamo Camillo riuscendo a spogliarci del nostro essere professionale per incontrare la persona. È importante riconoscersi, guardarsi negli occhi e capire dove siamo e soprattutto chi vogliamo diventare.
Avendo i protagonisti uno spettro descrittivo ampio ognuno si è riconosciuto nel soggetto narrativo che più risuonava con lui/lei. Ogni collega-lettore ha trovato aspetti familiari, situazioni note e interrogativi. So di chi ha sorseggiato Lunafasia prendendosi il giusto tempo; chi l’ha bevuto di un fiato per poi tornare a rileggerlo con calma. Sono certo, dalle testimonianze raccolte, che Lunafasia sia un romanzo che non lascia indifferenti… soprattutto se vivi la RSA più giorni la settimana.
3. “Gli anziani, una ricchezza per tutti” é il pay off del logo di Fondazione ALBERTO Sordi. Lo trovi retorico o realista?
Gli anziani sono una ricchezza per tutti. Non è retorica, sta ad ognuno di noi valorizzare la loro presenza. Ho imparato più da uno sguardo di una persona anziana che da una formazione di 8 ore. La loro presenza porta interrogativi che prescindono dall’esperienza o dai successi ottenuti in una vita. Le persone anziane sono monito, stimolo, invito alla tenerezza e al confronto con sé stessi. Monito, stimolo, invito e confronto il più delle volte silenzioso. Mi spiego. Come scrive Emilia nella prefazione “l’importante è l’incontro tra le persone”. Sta a noi cercare quell’incontro, sfogliare quell’immensa biblioteca di un sapere non solo studiato ma accumulato in una vita. Bisogna desiderare l’interazione, bisogna mettersi in ascolto e molte volte bisogna comprendere oltre le parole.
L’incontro cosiddetto generazionale arriva sempre per canali istituzionali, come sarebbe bello se fossero i genitori ad educare i bambini all’incontro spontaneo. Condurli nelle RSA senza nessun apparente motivo se non quello di favorire l’Incontro. Sono certo che una volta provato sono i bambini stessi a chiedere di tornare in RSA. Dall’altra parte si ri-dona il ruolo principe di accudente per le persone anziane istituzionalizzate.
“Non sono capace di lavorare come un tempo, ma oggi ho affidato a una famiglia che non conoscevo un pezzetto della mia storia da tramandare.” Sarebbe una fulgida luce sentire questa frase dalle labbra di una persona anziana. Altro che case di riposo dobbiamo favorire la nascita concreta di case di vita.
4. OSS: molto più che una sigla. Cosa significa essere Operatore Socio Sanitario?
Giocando a livello formativo con questa sigla l’abbiamo tramutata in Operatore per Scelta e Sensibilità. Questo dovrebbe significare essere OSS. È una figura professionale unica e speciale. Lavora nella quotidianità, durante le festività e le notti, entra nella sfera dell’intimità. Riesce ad essere l’ago della bilancia tra una buona e una pessima giornata. È, con ogni probabilità, la figura professionale più sottostimata che vanta un enorme potenziale. Potenziale che riesce ad esprimere quando concettualmente si discosta dal fare per abbracciare l’essere. Sono convinto che basti la presenza di pochi OSS con quest’ultima visione per cambiare in meglio il clima dell’intero reparto. Più che mai oggi, essere OSS è una sfida che vale la pena di essere giocata. Giocata per scelta e con sensibilità.
5. La pandemia ci ha messo nudo e, tutto, ci siamo ritrovati difronte ad uno specchio? Tu cosa chi hai visto?
È una domanda difficile da affrontare in poche righe, ma nel tentativo di riassumere così tante emozioni la descrivo in tre parole.
FRAGILI ci ha colti così la pandemia. Senza armi, senza protocolli, senza mansionari, senza équipe che potessero reggere. Al rientro dal mio lungo periodo di malattia mi sono trovato cambiato nell’aspetto (DPI) e nell’animo. Non ho visto più alcuni anziani con cui avevo costruito un rapporto lungo anni. La RSA si è svuotata della linfa vitale della presenza dei familiari e dei volontari. Persone anziane confinate, operatori fragili con in mano la preghiera che tutto si arrestasse.
IMPOTENTI è un termine che è risuonato spesso. Ho raccolto le lacrime di una collega che mi raccontava la sua frustrazione legata all’impotenza. “Ero lì e non potevo far nulla.” e io a rispondere “Sì ma tu c’eri. A me la pandemia mi ha allontanato nel momento del bisogno.” Non è stato facile e certe ferite le sentiremo pulsare per molto tempo ancora. Esserci come operatori accanto a molti anziani è stata l’unica cura che eravamo in grado di offrire. Poi è arrivata la vaccinazione rendendo tutto meno tetro.
INTIMORITI la paura non era solo per noi ma per la famiglia che custodivamo lontano dai luoghi in cui all’inizio la pandemia sembrava aver preso di mira. Il timore era alimentato dalla mancata percezione di un traguardo temporale. Il non saper per quanto è snervante ancora oggi.
Ho visto la RSA a nudo con vecchie ferite che venivano rinnovate da una spietata malattia che lacerava gli affetti e strappava la vita saggia di tanti nostri anziani. Ho visto il coraggio e la determinazione di tanti operatori. Ho visto il Sacrificio vestirsi di un camice e di mascherine soffocanti. Ho visto la voglia di esserci e di non mollare.
6. “Persona anziana istituzionalizzata”. Cosa significa?
Generalmente la domanda sarebbe “Ospite istituzionalizzato. Cosa significa?”
Sono molto contento quando leggo persona anziana, non è un dettaglio è dignità. Perché istituzionalizzare? Perché a livello domiciliare il carico psico-fisico-emotivo diventa deturpante della serenità e della salute del caregiver e della sua famiglia. Quindi un istituto viene delegato alla cura. Ma quale cura? I bisogni primari non possono essere la base da cui partire nella presa in carico. La base è data da i bisogni primari + i bisogni psicologici fondamentali + la storia di vita + le emozioni. Per essere trasgressivi: quanto sarebbe bello sapere anche il progetto esistenziale che la persona anziana aveva di sé in questa fase di vita…
Il vero problema delle istituzioni è che si avvalgono di un sistema organizzativo (altrimenti non si potrebbe fare). Questo funziona bene quando le domande e le richieste trovano tempi e modi omogenei. Di contro se prendiamo in considerazione il punto di vista dell’istituzionalizzato, palese è che la qualità di vita stia nella personalizzazione degli interventi e non nella standardizzazione. In questo dilemma concettuale la persona anziana vive giornalmente. Quanto sia rigido il sistema viene definito a livello normativo, organizzativo e dagli investimenti in risorse (strutturali e umane). Una persona anziana può trovarsi a suo agio in una RSA? La risposta è sì a patto che si riesca a creare un ambiente familiare, a stirare i tempi all’occorrenza e a investire risorse laddove necessita. Ogni RSA ha come mission la centralità della persona anziana, ma cosa possono decidere? Quando possono determinarsi? A chi si possono affidare?
Quesiti aperti per un cambiamento di senso che la pandemia e il suo post hanno accelerato. Qualcuno pensa che si debba partire dalla RSA per un cambio concettuale, io sono convinto che bisogna partire dalla persona anziana e dal suo centrale benessere.
7. Come hai vissuto il primo lockdown e le drammatiche notizie dalle RSA di tutta Italia?
Il lockdown e le drammatiche notizie le ho vissute con viva apprensione. Durante la prima ondata la RSA dove opero è stata risparmiata, la seconda ci ha travolto. Toccare con mano le paure che sembravano fuori dal cancello è stato terribile. Sembrava che le RSA fossero i lazzaretti ai tempi dei Promessi Sposi. Veniva dato eco ai numeri, ma ben poco agli sforzi quotidiani degli operatori che nel frattempo stavano rivestendo i ruoli extra di volontari e di familiari. Il carico emotivo e come detto in precedenza: il senso di impotenza, la paura e il costante timore del contagio ha travolto tutti. Nessuno escluso. Ho avuto colleghi straordinari che si sono rimboccati le maniche, che hanno fatto scelte di senso e rinunce eclatanti. A loro la mia sincera ammirazione e il mio sentito grazie.
8. Educatore e scrittore. Due dimensioni accomunate dal valore della sensibilità e dalla necessità di uno sguardo empatico verso il prossimo. Quanto l’una dimensione ti aiuta a vivere l’altra e…viceversa.
La scrittura mi permette di fermarmi e riflettere. Penso che se dovessi rinunciare alla scrittura diventerei un professionista meno completo. Non voglio dire che a un professionista serva necessariamente la scrittura per essere compiuto. Ma a me sì. È un percorso che ha necessitato di diversi anni prima di concretizzarsi. Se penso al romanzo che sto ultimando, molto di quanto ho vissuto a livello professionale ha trovato risonanza nelle sue pagine. Si scrive ciò che si conosce. Io conosco la RSA da più di un ventennio. La mia è una visione, non la Visione. Essendo tale ha comunque la dignità per diventare storia, romanzo ed emozioni in parole.
Di contro lo scrivere mi permette di conoscermi come professionista con tanti limiti e qualche risorsa. È un percorso binario che si contagia con naturalezza. Non posso che essere grato per la possibilità che la narrativa mi offre.
9. Cosa deve cambiare, nel sistema delle RSA, affinché possano sempre più essere di supporto al mondo della terza età?
La RSA, più che mai oggi, ha bisogno di un confronto serio che la porti a rinunciare a certezze e che smuova scenari inediti. Ha bisogno di scuotere la coscienza della comunità. In diverse città si sta sperimentando con successo le community friendly alzheimer. Dove dalla scuola alla bottega storica si svolgono incontri di sensibilizzazione e formazione affinché si possa accogliere una persona anziana che convive con la demenza permettendole la possibilità di essere protagonista come è in grado ora.
Chi entra in RSA non vi esce: la sua dimora non muta. Manca un sistema di servizi territoriali che supporti la persona anziana e che le offra le migliori possibilità commiste tra istituto e domicilio privato. Bisogna favorire incontri intergenerazionali che diventano uno stile di vita comunitario e non l’ora saltuaria. La creatività, il pensare oltre gli schemi e gli stereotipi che l’età senile porta con sé è il primo passo per un cambiamento di senso.
10. La bellezza nelle RSA: tu dove l’hai trovata?
La bellezza in RSA io la trovo nel sorriso di una persona anziana. Nel sentirmi chiamare per nome da chi ha un MMSE non valutabile. Dal confronto vero e propositivo con i miei colleghi. La trovo durante il supporto ai caregiver. Con la sensazione di aver fatto per quella persona, oggi, la differenza. Nessuno pensi di conoscere la RSA solo perché ha attraversato i suoi corridoi. La RSA la conosci, la bellezza della RSA la conosci, nelle storie che racchiude.
Alcune di queste mi sono preso il compito di raccontarle… più bello di questo!