Simona Orlando, giornalista, in occasione della Call for Ideas pre Workshop “Accordi che Curano” ci ha scritto raccontando ciò che sta attraversando nel prendersi cura del suo papà, evidenziando quanta strada ci sia ancora da percorrere.
Il papà di Simona, per un breve periodo ha frequentato anche il Centro Diurno Alberto Sordi
Dottoressa, ci racconti la storia difficile e dolorosa, che sta vivendo nel prendersi cura di suo papà
Si pensa l’Alzheimer sia una patologia dell’individuo, invece è anche la malattia che cannibalizza chi gli sta intorno e di cui nessuno si cura. Chi ha la diagnosi, perde la memoria, l’identità, il controllo del corpo. Chi gli sta accanto, assiste impotente alla sua disgregazione, e intanto vive lo sbriciolamento di tutto ciò in cui ha creduto: la famiglia, l’amicizia, il lavoro, lo Stato. Pezzo dopo pezzo, scompare tutto.
Ho mandato via mio padre dalla sua casa, e non riesco a perdonarmi. L’ho dovuto fare per salvare almeno mia madre, che gli stava morendo appresso. Mio padre, l’uomo che mi ha cresciuta e protetta, se ne è andato. Ma è un tipo di assenza sadica, perché sotto sotto è rimasto. Non c’è più, eppure si presenta a intermittenza. Non so mai quando lo ritroverò. Dice e fa cose senza senso, è smarrito in qualche corridoio della mente, poi d’improvviso atterra, riconosco il suo sguardo, pronuncia il mio nome, fa progetti per il futuro. Dobbiamo andare al mare. Bisogna parcheggiare bene la macchina. Canta. Sorride, dice che non devo preoccuparmi di niente. Provo gioia smisurata. Poi però piange tanto. E io mi dispero. Allora, lui, lo sa come sta? Nei momenti di lucidità, si rende conto di quello che gli sta capitando? Poi se ne torna altrove, lontano. Non mi riconosce. Non lo riconosco.
Vivo dentro pensieri atroci. Arrivo a sperare che non sia mai lucido, per non soffrire. Dimentica, papà. Dimentica tua figlia e quanto mi hai amata. Dimentica chi sei stato, così non ti mancherà. Ma io non dimentico. E i ricordi nuovi che ci stiamo creando, mi piacciono almeno quanto i vecchi. La mia vita si è ridotta all’attesa di quello sguardo senza prezzo. Nessuno mi potrà mai guardare con lo stesso amore. Non vorrei essere da nessun’altra parte. Non penso ad altro. I lavori saltano. La libera professione non aiuta, dipende per intero da energie che non ho più.
Questa malattia non si può elaborare come un lutto, perché mio padre non se ne è del tutto andato. E quando torna, è bellissimo. Non è morte, non è vita. Non può stare con noi, non può stare senza di noi. Non posso tenerlo, non riesco a lasciarlo andare. Non posso salutarlo, non può salutarci. Credo sia l’ingiustizia più grande che gli viene inflitta: non poter elaborare il pensiero della morte, non avere il diritto al senso della fine. Lui non può prepararsi a niente. Sistemare le cose, dire le parole giuste, arrangiare un addio come si deve. È una foglia al vento. Fragilità con qualche ossa.
Ecco la cronologia sintetica di un inferno: passo due anni a raccattarlo in giro per la città. Va e non ricorda dove. Perde le chiavi, i soldi, le scarpe, e s’infuria. La notte si alza e prepara la valigia per partire. Vede la casa allagata e io asciugo il pavimento per farlo stare tranquillo. Fissa sulle mani il sangue che non c’è e io fingo di medicarlo. Mena quando gli sembriamo degli estranei. Dal suo punto di vista, si difende. Non dormo da non so quanto. A telefono della Asl non risponde mai nessuno. Di persona, vado tre volte a vuoto, rimbalzata di qua e di là. Perciò, cerco un badante.
Mi chiedono 2600 euro al mese con l’agenzia. Ma il badante ha due ore al giorno libere, e la domenica non lavora. Mio padre non può rimanere un attimo senza assistenza. Bisogna aggiungere i soldi per un sostituto. Ah, bisogna anche ristrutturare casa, perché i badanti esigono una stanza separata dal malato, sennò non accettano. Che formazione hanno? Nessuna. Qualcuno ha esperienza con gli anziani, nel senso che è abituato alle loro evacuazioni. Sa cambiare un pannolone e fare la minestrina. Ma un malato di Alzheimer non è sinonimo di anziano. Serve pazienza, ascolto, dolcezza. Serve non contraddirlo, entrare nel suo mondo. Finisce che cedi i risparmi di una vita ad uno che non ha nessuna di queste competenze. Non sa come comportarsi. Deride mio padre, o si spaventa per le sue stranezze, lascia il carico per lo più a me o a mia madre ottantenne. Non è niente di più che un domestico che ha superato il disgusto per l’igiene altrui.
La prima volta che ho portato mio padre in una struttura privata, ho vomitato. L’ho tradito, pensavo. Si fidava di me e io l’ho abbandonato. Adesso si guarderà intorno e si sentirà solo. Il dottore mi ha rassicurato: «Non si faccia di questi problemi. Suo padre è una scatola vuota, mi creda». Una settimana dopo l’ho portato via, con il cappotto sulla testa come un rapitore, per non fargli più vedere la villa in cui non riuscivano a vederlo come una persona. Era un cartone. Mi dicevano anche di non andarlo a trovare, altrimenti i ricordi affioravano e lui soffriva di più. Però le scatole vuote non hanno memoria né lacrime. È una scatola vuota o gli manca la famiglia? O l’una o l’altra, non si può scegliere a seconda della convenienza. Parlo anche delle strutture private, perché i medici e gli operatori di lì sono spesso di strutture pubbliche. Doppio lavoro, non credo diversi atteggiamenti.
Finito in un ospedale pubblico per il Covid, lo legano mani e piedi. Per nove giorni. Non è previsto un trattamento speciale per chi ha l’Alzheimer. Lui non capisce che ha il catetere e vuole scendere dal letto per andare in bagno. Non comprende chi siano quegli astronauti con il casco che gli girano intorno, e si agita. Non c’è personale per stargli dietro. Le visite dei parenti non sono ammesse. Allora va contenuto. Un crocifisso di carne. Nemmeno Gesù Cristo è stato lasciato così solo. È entrato in reparto vestito, ne è uscito con i calzini e un paio di mutande. Me lo hanno consegnato seminudo. Gli abiti e il portafoglio li hanno perduti gli infermieri. Forse rubati. Rubare a un malato mi sembra comunque più accettabile che scordarsi il dettaglio della sua dignità.
Seconda RSA o come si chiama, privata, stesso problema. Non ne esiste una che si occupi di Alzheimer. Prendono tutti, anziani soli e lucidi, insieme ad affetti da demenza di varia gravità, Parkinson e altri i doni dell’età. Gli italiani sono longevi, entra più denaro in cassa se non si dividono per categorie. Il risultato è che gli operatori socio-sanitari non possono perdere tempo con i pazienti più impegnativi. Rallentano gli altri nelle attività. Le terapie occupazionali si fanno in comune, non sono ad personam. Trovo mio padre sedato e legato in carrozzella, rivolto contro il muro. «Ha troppe energie e siamo in sotto-organico», mi dicono «Non fa attività con gli altri perché cognitivamente non sta al passo». Ma dai? Ha l’Alzheimer, maledizione. E non può essere una colpa. Sarebbe giusto stimolarlo con esercizi mirati, invece di farlo sentire un ritardato. Come mai che con me scherza, conta, scrive, articola le frasi? Come mai quando frequentava il centro diurno Albero Sordi aveva imparato addirittura a dipingere? Se uno è ritardato lo è sempre, non va a seconda di quanta attenzione gli dai.
I cani sanno fare meglio degli uomini. Mio padre, a casa, si accendeva quando gli facevo fare la pet therapy. Cinquanta euro l’ora. Altro business. Una spesa insostenibile. Perché non inserire questa attività nelle RSA? Funziona, e non discrimina nessuno. La proposta in direzione mi fa guadagnare lo sguardo che si rivolge ai pazzi. Per mio padre è previsto il teatro, la rassegna stampa, la tombola. Tutto ciò che può fare un anziano dotato di memoria. È un escluso nel regno degli esclusi. Il consiglio che ricevo: «Ci sarebbe bisogno di qualcuno che segua solo lui. Si prenda un badante». Sembra una battuta. Riesco perfino a ridere.
Se faccio notare che da due giorni mio padre ha la febbre e nessuno se ne è accorto, se chiedo come mai abbia dei lividi sulle mani e un bozzo in testa, gli OSS sbuffano, si offendono, mi salutano stizziti. Il messaggio è che se vuoi andare d’accordo con loro, non devi lamentarti.
In sei mesi lì dentro non gli ho mai visto i suoi vestiti indosso. Sono sempre di qualcun altro, roba che lui non avrebbe mai comprato. Solo i calzini sono i suoi. Hanno l’etichetta con un numero. Glielo hanno assegnato come nei campi di concentramento. Nessuno mi ha mai chiesto chi era mio padre, cosa facesse prima, cosa gli piacesse fare. Mio padre è un numero sulla pianta del piede.
Lo metto in lista per una struttura all’avanguardia, compartecipata, l’unica a misura di Alzheimer. Specifica come dovrebbe, pensata come un villaggio, dove fare una vita normale, il più possibile autonoma, senza contenzioni. Un sogno. Nell’attesa della chiamata sono costretta a metterlo altrove, e qualsiasi luogo segue una politica opposta, di contenzione. Lo rendono dipendente in tutto: pannolone perché mica si può portare in bagno ogni volta; imboccato perché sennò va troppo lento e dopo c’è un altro turno. Alla struttura all’avanguardia, quando finalmente mio padre ha accesso alla visita, dopo un anno, lo bocciano. Non è più indipendente come quando ho fatto richiesta. Assicuro che quando non è sedato e ha attenzioni, lui recupera. Anzi rinasce. Stupisce per le capacità che ha. Non mi credono. Non mi concedono neppure un tentativo per dimostrare che non sono una bugiarda. In pratica, nell’arco di un anno, con una malattia dal decorso imprevedibile, avrei dovuto beccare il momento esatto in cui mio padre era autosufficiente e in quella struttura si liberava una stanza. Un Jackpot all’Enalotto sarebbe stato più probabile.
Il vicolo è cieco. Quando mio padre è lucido e presente, è anche più aggressivo. Aggressivo perché ha energie, vorrebbe fare qualcosa, sentirsi ancora utile e abile. Ma nessuno può dedicarsi a lui. Allora va stordito coi farmaci e legato. «Per il suo bene» mi dicono. Mi sento complice del suo lento omicidio. Mia madre finisce sotto psicofarmaci. Non regge il senso di colpa. Stanno insieme da 65 anni. Negli ultimi 58, hanno sempre dormito abbracciati. Credo se ne andrà prima lei. Che era sanissima.
Allora cambio di nuovo. Ogni trasferimento è doloroso per noi e disorientante per papà. Stavolta si tratta di un istituto religioso. Tremila euro al mese, ma almeno le suore saranno pazienti. Loro, di sicuro conoscono l’ascolto, la misericordia. Un mese di prova, poi lo scaricano. «Perché? Ha fatto qualcosa?». Risposta: «No no, di giorno è dolcissimo, ma la sera si dimena». Lo so. Fa parte della patologia. Che problemi dà? «Ci vogliono quattro persone per metterlo a letto. Non si fa spogliare. E noi dobbiamo pensare agli altri, non possiamo concentrarci su di lui». Mi chiedo, qual è il posto di mio padre in questo mondo? Qual è la casa degli ultimi, se non in un posto come questo? Dov’è che non ci sono prima “gli altri”, quelli che stanno meglio, che hanno meno bisogno? A chi sta bene sanno pensarci tutti, anche gli atei.
Attualmente, mio padre è ancora in lista per una RSA pubblica dove curano i disturbi comportamentali gravi. Ne ho visitate diverse di queste strutture. Orripilanti. Sono simili ai vecchi reparti psichiatrici. E io continuo a non dormire.
Cosa succede dopo la diagnosi di questa malattia? Gli amici si dileguano come fanno gli animali nel bosco durante un incendio. Lo Stato corre via prima ancora di loro e in ospedale si frega i vestiti di un vecchio. Le strutture pubbliche che dovrebbero accoglierlo sono indecenti, quelle private sono decorose ma costose, incompetenti e indifferenti. Dunque, la psiche e il cuore cedono. Il lavoro si perde. Il conto in banca arrossisce. La fiducia in istituzioni terrene e non, marcisce. Tristezza e delusione trionfano. I rapporti si logorano. È così che noi familiari moriamo di Alzheimer, senza ancora averlo.
Se le dovessi chiedere di presentare delle proposte di miglioramento del servizio domiciliare o indicare dei settori di lavoro, quali sarebbero?
Innanzitutto si dovrebbe aiutare la famiglia a tenere il proprio caro a casa e fornirle supporto psicologico. Non esiste trauma più grande del distacco per portarlo in una RSA. È un dolore che non ti lascia più.
Che sia a domicilio o in RSA, bisognerebbe formare i cosiddetti “badanti”, così come gli OSS. Molti non hanno né esperienza né vocazione né empatia. Non sanno, come non lo sa la famiglia, che esiste un linguaggio, un tono di voce, frequenze emotive che si sintonizzano con il malato. Cose che lo spaventano, cose che lo calmano. Anche nelle situazioni molto gravi, i malati sentono, percepiscono, comunicano. È che noi non sappiamo interpretarli. Ma quando succede, si apre un mondo, tutto diventa più facile, a volte incredibilmente bello. Invece, si affidano esistenze in bilico ad esimi improvvisati. Nessuno vigila, e tutto è lecito.
Fisioterapia e logopedia dovrebbero essere garantiti, così come le attività occupazionali. L’orto, ad esempio. Gli spazi verdi dovrebbero essere obbligatori. E la pet therapy, con i cani soprattutto. I cani non giudicano, danno affetto, cercano la comunicazione con gli occhi e il contatto fisico. Il paziente rinasce. L’ho visto di persona. Invece di sentirsi dipendente da altri, ha qualcuno che dipende da lui, del quale si deve occupare. Per chi ha lavorato, per chi ha avuto la responsabilità di una famiglia, è importantissimo sentirsi ancora utile.
La fondamentale alternativa alle RSA disumanizzanti, è il co-housing. Uno spazio in tutto e per tutto simile ad una casa, stanze private, cucina in comune, assistenza continua a turnazione. Pochi pazienti, in un luogo dove la famiglia è benvenuta, può andare quando vuole, aiutare, partecipare, riprendersi la dimensione domestica. In passato esistevano demenza e Alzheimer, ma i malati si tenevano in casa, perché le famiglie erano numerose, i condomini solidali, i vicini disponibili. Con il co-housing si può tornare a realizzare una comunità di questo tipo.
E quali sono, invece, le criticità? A cosa crede siano dovute?
Durante i cinque anni in osservazione presso un reparto UVA di un ospedale romano, nessuno, dico nessuno, ci ha preparato o avvisato su cosa avremmo dovuto affrontare con il decadimento cognitivo di mio padre. E quando è avvenuto, nessuno si è premurato di parlare con noi. Ho sentito medici definire mio padre «scatola vuota», «utente», infermieri che dicevano «Speriamo che se ne vada presto, tanto così che campa a fare». La criticità è la grettezza, l’incapacità di sentire gli altri e di trovare le parole giuste. Il linguaggio riflette il pensiero. E queste persone sono quelle che dovrebbero curare?
Non c’è alcuna attenzione, alcun orientamento per le famiglie. Ho impiegato mesi per capire a chi rivolgermi per usare i servizi su territorio, dove l’accesso è complicato comunque da lungaggini burocratiche e bizantinismi vari. Un tempo che chi ha malattie degenerative non si può permettere. Si è costretti a rivolgersi a strutture private, che sono aziende. Tutto congiura per smantellare il servizio sanitario nazionale. A cosa è dovuto? Interessi personali, e una certa sciatteria culturale. Chi è anziano, chi sta male, è improduttivo, inutile alla società. È una logica di profitto, che insieme all’ignoranza – l’ignoranza ad esempio di quanto anziani e malati possano essere risorse – crea una miscela di lassismo e indifferenza.
Anche dagli addetti ai lavori, la malattia è letta in modo errato. Non è la parte finale della vita, che merita di essere vissuta al meglio, ma la parte iniziale della morte. Ho visto tante RSA pubbliche senza nemmeno un’aiuola. Mostri di cemento senza sfiatatoi, sempre arredati al minimo, privi di colori. Eppure la bellezza dà benessere. I malati dovrebbero contemplare la bellezza fino alla fine. La morte è una tappa naturale, la sofferenza cui sono sottoposti no. Vedere il brutto attorno, è una morte anticipata. È togliere la vita quando ancora c’è. Questo, non è affatto naturale.