Tre sono le categorie di persone che hanno pagato il tributo più pesante in questa pandemia: gli operatori sanitari, i sacerdoti, gli anziani. Le statistiche lo confermano, sebbene le tante vittime del virus si contino in altri settori.
Mi sono chiesta quale filo unisca queste tre categorie e mi è sembrato di individuare un sottile legame: la capacità di prendersi cura. Cura della salute per i medici e gli infermieri, cura della salvezza per i sacerdoti, cura della memoria per gli anziani. Esercitata per professione dai primi, per missione dai secondi, come compito dagli anziani. Non a caso, molti giornalisti hanno commentato che in questi mesi, silenziosamente, si è consumato il declino della generazione che ha ricostruito l’Italia del dopoguerra, quei padri e nonni che potevano raccontare “come eravamo” prima del boom economico, che erano in grado di narrare la fatica di avviare negli studi i figli, perché avessero un futuro migliore del loro. È stato lo stesso presidente della Repubblica a ricordarlo con particolare commozione, forse in quanto vicino, per età anagrafica, a quella stessa generazione.
Va detto che, mentre a medici e infermieri è stato tributato l’“onore delle armi”, tra menzioni, applausi e striscioni, molto più sommesso è stato il riconoscimento prestato alla memoria di sacerdoti e religiosi e del tutto impercettibile quello nei confronti degli anziani. Sono stati presentati numeri, percentuali, statistiche, ma sempre riferiti a una categoria collettiva raggruppata dall’anno di nascita -classe 1930, 1935- o dalla semplice indicazione del luogo di residenza, città, casa di riposo, Rsa. Silenziati da morti e isolati da vivi per precauzione, gli anziani sembrano fuori della scena, tranne che per qualche complimento retorico –“le nostre radici”, “le biblioteche viventi”- forse perché rappresentano un rimprovero imbarazzante per la nostra società dell’efficienza.
Da più parti si è ripetuto che la pandemia ha rappresentato lo smacco per quella cultura della razionalità tecnocratica convinta illusoriamente di tenere tutto sotto controllo, dominata dall’accelerazione e dal bisogno di consumo. Abbiamo dovuto rallentare e in molti casi ci si è dovuti fermare del tutto, pur ostentando fino all’ultimo lo slogan #lacittànonsiferma. Il nostro ritmo abituale ha subito una battuta d’arresto e allora abbiamo scoperto due realtà abitualmente trascurate, per le quali il tempo è una condizione necessaria: la convivenza domestica e la preghiera. Qualcuno ha scritto con una efficace battuta che il corona (virus) per molti ha comportato scoprire la corona (del rosario). E la casa, questa sconosciuta, è diventata forzatamente e improvvisamente il luogo del tempo del lavoro e del tempo libero, della conversazione, della convivialità, persino dello sport. Allora ci siamo resi conto che esistevano gli anziani e che forse avevamo dedicato loro poco tempo. E se per alcuni è stato troppo tardi, per altri, spesso ormai inavvicinabili a causa delle misure adottate, il telefonino è diventato una risorsa preziosa. Accanto a un emerso di incuria e di solitudine nelle strutture e case di riposo, è affiorato anche un sommerso di professionalità e di dedizione generosa, che forse ritenevamo impossibili.
Ci siamo accorti del deficit di cura di cui soffrivamo, dell’avarizia con cui calcolavamo il tempo delle relazioni gratuite e della nostra insofferenza di fronte alla lentezza di chi è avanti negli anni. Custodi della memoria gli anziani certo, ma la memoria ha bisogno di raccontarsi e il narrato richiede qualcuno che ascolti, interpreti e comprenda. Non è sufficiente, quindi, un’attenzione esclusivamente medicale, se non si orientano gli sforzi per creare un ambiente inclusivo, dove l’anziano trovi accoglienza e sicurezza, come si propone nella Carta Alleanza per le persone anziane, promossa dalla Fondazione Alberto Sordi e sottoscritta da molti esperti.
In questi giorni leggiamo la domanda spesso rivolta nei sondaggi alla gente: “qual è la prima cosa che farà una volta ripreso il ritmo abituale?”. Se non esiste la risposta ideale, c’è però da augurarsi che non si ricalchino esattamente le abitudini di vita precedente, come se la lezione impartita dal Covid19 non ci avesse insegnato nulla.
Cambiare le nostre priorità, investire nella cura e non solo in termini di budget. Ha scritto David Grossman sulle pagine di un quotidiano che, finita la pandemia, diremo addio alla fretta e al superfluo e sì alla tenerezza. Speriamo di non dimenticare la lezione.
Maria Teresa Russo
Professore Associato di Filosofia Morale, Università Roma Tre