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Intervista al Prof. Riccardo Prandini, Professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Bologna

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Abbiamo intervistato Riccardo Prandini, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Bologna nonché autore del documento “Percorso di reticolazione fra realtà che si occupano di anziani fragili e/o non autosufficienti – La cura dell’anziano fragile alla prova della pandemia”.

Il testo – scritto con il contributo della dott.ssa Elena Macchioni – è il cardine del Convegno “La cura dell’Anziano alla prova della pandemia, una rete di reti: alleanza per le persone anziane” che si terrà il prossimo 29 Aprile a Roma.

Buongiorno dott. Prandini.

  1. Da dove nasce questo lavoro? Ed in che modo la pandemia ne ha caratterizzato i termini e delineato i confini?

«A partire dall’estate del 2021, 17 realtà che si occupano della cura di anziani fragili, e che parteciparono l’anno precedente alla ricerca promossa dalla Fondazione Alberto Sordi, hanno deciso di lavorare insieme. I risultati dello studio svolto sulla “cura nella pandemia”, hanno evidenziato la necessità che le organizzazioni si reticolino maggiormente per continuare la riflessione avviata, condividendo risorse e individuando risposte alle criticità presenti dopo la terza ondata pandemica.  Altrettanto rilevante è il bisogno impellente di trovare modalità efficaci per avviare un dialogo con le istituzioni territoriali e nazionali, dialogo necessario per un vero cambiamento. Da questo percorso ne sono derivati due risultati:

1- un Glossario di termini e concetti che i rappresentati delle organizzazioni hanno scelto come fondamentali per inquadrare i problemi;

2 – un percorso di azione che dovrebbe servire a cambiare, dall’esistente, la realtà delle RSA e dei servizi. Questo percorso ha avuto al suo centro il tema della “continuità delle cure”. Dentro a questo tema di riferimento dovrebbe stare in futuro il ripensamento delle RSA.

Nel percorso le realtà partecipanti hanno elaborato una serie di temi che ritengono fondamentali per ripensare un sistema interrelato di servizi territoriali che abbia al centro la “continuità” della presa in cura della persona».

  • Abbiamo letto le considerazioni sulla “strategia dello struzzo”: a cosa si riferisce?

«Durante i 2 anni della pandemia si sono palesati due precisi” meccanismi” narrativi. Il primo è stato quello del “capro espiatorio” che funziona sempre come deresponsabilizzazione collettiva e fuga dalla realtà. Si identifica un attore – nel caso della pandemia solitamente le RSA –  e lo si accusa di ogni male, nascondendo tutto il resto. Il “sacrificio” del Capro rimette in equilibrio la comunità che espelle il male esternalizzandolo: un male di cui essa stessa è responsabile. Una logica auto-assolutoria che si collega molto al secondo meccanismo, quello della “strategia dello struzzo”: nascondere la testa sottoterra, sperando con ciò che i problemi spariscano. Non è un caso che ormai a due anni dell’inizio della pandemia nessuna riforma “strutturale” o “cambio di paradigma” – due delle retoriche più utilizzate –sia neppure iniziato».

  • Nel testo, si fa riferimento all’accusa rivolta a ospedali e RSA di essere “luoghi della morte”. Perché la ritiene genericamente sbagliata?

«La forte accusa alle RSA e anche agli ospedali, di essere luoghi della morte è ipocrita. Si tratta infatti di due contesti istituzionali (!) – tra l’altro fortemente voluti negli scorsi anni dal sistema politico, scientifico, sanitario ed anche economico del Paese –  dove pazienti e operatori sanitari sono obbligati a rimanere per periodi di tempo giornaliero molto lungo, al chiuso e in interazione reciproca, cioè in presenza: e dove i pazienti sono in prevalenza rappresentati da persone fragili, tra cui maggioritarie nelle RSA gli anziani non autosufficienti con malattie croniche difficilmente trattabili nelle loro case (anche perché in molti casi, le famiglie di origine, se sono presenti, hanno altri problemi da affrontare, parimenti urgenti e non sono minimamente attrezzate a rispondere ai bisogni). Se a questa necessaria residenzialità si aggiunge anche una certa flessione di risorse a disposizione – soprattutto di operatori sociosanitari (che durante la pandemia sono stati “saccheggiati” da ospedali e da strutture pubbliche) diventa evidente come il virus, una volta entrato, abbia trovato lo spazio-tempo migliore per proliferare. Il problema però non è risolvibile attribuendo a questi luoghi residenziali una qualche qualità mostruosamente maligna. Il problema è che durante la prima fase della pandemia tutto il “sistema” (di nuovo: tutta la filiera politico-sanitaria) ha preso decisioni che hanno avverato le peggiori profezie! Le chiusure delle RSA, in netto ritardo con le notizie che già si avevano sulla circolazione del virus; l’ospedalizzazione dei pazienti, senza che agli operatori fossero stati forniti di dispositivi di protezione individuale; lo spostamento di pazienti dagli ospedali alle RSA (seppure si sia detto in spazi dedicati); la richiesta successiva che le RSA si chiudessero assolutamente all’interno per evitare (sic!) nuovi problemi di contagio; la ricerca spasmodica di operatori sanitari sottratti alle residenze stesse;, etc. Tutto questo “circuito chiuso” di decisioni affrettate e difficili, spesso però molto orientato a scaricare problemi altrove – a smentire sul campo la retorica sempre presente d’integrazione e collaborazione istituzionale – ha fatto il resto».

  • “Continuità delle cure”: perché è un tema così importante?

«Il quadro del ragionamento è questo: qualsiasi riflessione sulle RSA o su ogni altro aspetto istituzionale delle cure sociosanitarie, va trattato all’interno del “sistema” della sanità che a sua volta è solo un pezzo della generazione di salute che si svolge ben oltre i suoi confini istituzionali e organizzativi. Se occorre riformare, la riforma dovrà essere di sistema e di filiera. Nessuna proposta limitata a mere “parti” del sistema – e che non tenga conto del più vasto ambiente salutogeno – potrà mai cogliere nel segno. Il sistema è composto dagli attori, organizzazioni, quadri istituzionali, culture, offerta dei servizi, etc., molto diverse tra di loro e ognuna delle quali è in interdipendenza con le altre, pur mantenendo la propria autonomia. Il sistema è rappresentabile come un continuum di “risposte sociosanitarie” alle domande degli utenti e delle loro famiglie, ognuno delle quali adeguata ai loro problemi peculiari, ognuna con punti di forza e di debolezza. Insieme agli attori del sistema sociosanitario sta il suo ambiente correlato di riferimento, quello dei bisogni-domande degli utenti e delle famiglie che vanno codificati dal sistema per poter essere “letti” ed “inclusi” in esso. Ma nell’ambiente del sistema sociosanitario, abbiamo anche le regole istituzionali, l’economia dei servizi, le decisioni politiche, la ricerca scientifica, etc».

  • A proposito di riforme di sistema, perché stentano ad arrivare?

«Stentano ad arrivare perché si oscilla tra posizioni di cambiamento o “minimaliste” o “massimaliste”. Le prime non vorrebbero cambiare l’impianto della sanità attuale, già piuttosto frammentario visto la forte attribuzione di responsabilità a livello regionale, cercando di mettere “pezze” laddove sia aprono falle evidenti. Questa prima strategia è letteralmente “esplosa” con la pandemia mostrando la necessità di riforme strutturali. Queste però non possono essere pensate in modo “massimalista”, cioè credendo di potere cancellare d’un colpo l’esistente sostituendolo con qualcosa di nuovo. Il cambiamento ha bisogno di un tempo lungo, ben gestito e capace di trasformare poco a poco la struttura della Sanità e la sua territorializzazione. Ancora una volt sarebbe necessaria una prospettiva politica realistica e di medio-lungo periodo: una prospettiva sempre più difficile da trovare nei politici e anche negli elettori».

  • La personalizzazione delle cure è uno dei punti toccati dal percorso di azione: in che modo deve incidere su un processo di cura?

«L’insieme delle risposte alle domande di salute degli anziani, così come essi possono esprimerle anche con l’aiuto delle persone di riferimento che lo assistono quotidianamente – familiari o meno – cioè l’offerta di cura (cure) e di accudimento premuroso (care), vanno realizzate mediante “conversazioni profonde” tra le parti. Queste conversazioni, dopo aver ascoltato tutte le parti, generano dei progetti personalizzati che partono da uno sguardo globale sulla condizione dell’anziano, sui suoi molteplici fattori di fragilità, sul suo contesto di vita e di relazioni e che organizzano le risposte di conseguenza. Le nuove tecnologie digitali possono aiutare a organizzare meglio l’offerta dei servizi, ma certamente non possono sostituire il lungo lavoro di comprensione e di risposta dei problemi dell’anziano. Anche la questione della “familiarizzazione” delle cure va trattato in modo non ideologico, ma a partire dalla costruzione del piano personalizzato. Solo in quel contesto ha senso misurare bene i servizi domiciliari e quelli residenziali».

  • Quali saranno gli obiettivi del Convegno che si terrà il prossimo 29 Aprile?

«L’obiettivo è quello di sviluppare ulteriormente i principi della Carta Alleanza per le Persone anziane, cercando di ampliare la rete degli attori e delle realtà che la hanno firmata.  I risultati dello studio svolto sulla cura in pandemia che è derivato da quella Carta, hanno evidenziato la necessità da parte delle diverse organizzazioni di reticolarsi, per continuare la riflessione avviata, condividere risorse e individuare risposte alle criticità presenti dopo la terza ondata pandemica e trovare modalità efficaci per avviare un dialogo con le istituzioni territoriali e nazionali, necessario per un vero cambiamento».

  • A breve lanceremo per Fondazione Alberto Sordi la rubrica “Voce del verbo”. Sarà il tentativo di andare oltre il significato lessicale delle parole, per trovare sfumature nuove. Il primo verbo sarà “Curare”. Qual è per lei il suo significato?

«Prendersi cura di qualcuno o di qualcosa; conoscerne la storia, la condizione, il loro senso e saperli inquadrare in un percorso finalizzato a raggiungere un obiettivo; seguirlo e sostenerlo da vicino per il tempo necessario; aiutarlo a “fiorire” secondo la sua natura».

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