Prof. Luisa Bartorelli: Alzheimer è una patologia subdola. Un nemico ancora troppo forte nonostante i progressi della scienza e della ricerca. Ad ogni modo, ci sono aspetti su cui è necessario intervenire con maggiore incisività. Cosa ad esempio si può fare per tutelare sempre più la dignità e i diritti dei pazienti e delle loro famiglie?
«Innanzi tutto cercare di usare un linguaggio che non sia troppo negativo nei riguardi di questa malattia, creando così timore e un rifiuto verso le persone che ne soffrono, con conseguente loro isolamento. Indubbiamente è una patologia, sempre più diffusa a causa dell’invecchiamento della popolazione e bisogna farsene carico con competenza e comprensione: certamente la diagnosi deve essere più tempestiva per un intervento più precoce ed efficace e per un’assistenza più specifica, mirata sia alla persona con demenza che alla sua famiglia. Si tratta di un necessario cambiamento di mentalità, che crei intorno a loro la cosiddetta città amica ,una comunità consapevole che li accolga senza paura, facilitando loro una vita quotidiana più normale possibile.»
In tale prospettiva, in che modo si può aumentare, anche presso l’opinione pubblica, la sensibilità verso le problematiche sociosanitarie che la malattia di Alzheimer solleva?
«Bisogna proprio mettere in campo questo processo della friendly community per le persone con demenza, che viene propugnato in tutta Europa e che ha già più di un riscontro in Italia. La nostra Associazione Alzheimer Uniti lo sta attuando in varie località italiane. Noi a Roma stiamo iniziando a promuovere nel quartiere della Garbatella un coinvolgimento che speriamo dia i suoi frutti. E’ un processo lento, che richiede impegno e buona volontà da tutte le varie componenti di una società consapevole.»
Quanto, in Italia, è concreto il sostegno delle istituzioni ai malati di Alzheimer e alle loro famiglie?
«Credo che sia arrivato proprio adesso un momento cruciale per una svolta positiva, attraverso un finanziamento di sanità pubblica, che finalmente è stato erogato come Fondo Nazionale per le Demenze. Ogni regione ha effettuato il proprio progetto, perseguendo appunto a seconda dei casi la tempestività della diagnosi, o gli interventi di tipo psicosociale sulla persona e sul suo caregiver, oppure ancora, nei casi di assistenza tecnologicamente più avanzata, interventi innovativi.
Aspettiamo con fiducia i risultati concreti di questi progetti.»
La nostra società è sempre più digitale e tecnologica. Le numerose innovazioni degli ultimi anni hanno determinato, in termini socioassistenziali, un innalzamento della qualità dei servizi a disposizione dei malati di Alzheimer e delle loro famiglie?
«Come dicevo prima, certamente alcune sperimentazioni effettuate in servizi più avanzati hanno dato i loro frutti, come la telemedicina e la teleriabilitazione, che sono tra l’altro state molto utili nei contatti a distanza in tempo di Covid, e potranno esserlo ancora nel raggiungere persone lontane dalla rete dei servizi, combattendo le disuguaglianze e favorendo le opportunità. Tuttavia lasciatemi dire che, poichè in questa condizione il danno cognitivo non attenua i canali emozionali, anzi li esalta, nulla può sostituire il rapporto diretto con la persona, la vicinanza dello sguardo, il calore di un gesto di contatto, mano nella mano!»
Prendendo spunto dal vostro sito web: è corretto sostenere che il malato di Alzheimer sia illogico?
«Non è una questione di logica. La cognitività è costituita da tanti elementi del pensiero, come la memoria, l’attenzione, l’orientamento, l’astrazione, lo stesso linguaggio e altro, che via via vengono danneggiati nel decorso di malattia. Tuttavia se c’è una diagnosi precoce, un’offerta di assistenza personalizzata, un caregiver consapevole, è possibile valorizzare le capacità ancora conservate della persona, con risultati sorprendenti.»
Quanto, a suo avviso, è importante orientarsi ad un approccio sociosanitario che sia sempre più integrato?
«Tornando al supporto delle istituzioni pubbliche, sta emergendo su molti territori la determinazione di applicare il cosiddetto PDTA, il Piano diagnostico –terapeutico-assistenziale, che per le demenze parte dal sospetto diagnostico del medico di famiglia, passa all’intervento fondamentale dei CDCD (Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze) , con i quali vanno ad integrarsi in rete gli altri servizi del territorio, tra i quali per me è fondamentale un’assistenza domiciliare specifica. La specificità è infatti parola chiave per l’assistenza alla persona con demenza.
E’ inoltre auspicabile che, quando siano sperimentati e validati, anche servizi erogati dalle Associazioni (gruppi di sostegno, caffè Alzheimer, ecc.) trovino la loro collocazione nella rete, contribuendo a una sempre maggiore offerta socio-sanitaria integrata per le demenze.»