«Ciò che hai vissuto nessuna forza al mondo può sottrartelo»
«L’alpinismo è stato la mia grande passione fino all’ottantesimo anno di vita»[1].
Un’affermazione, questa di Viktor Emil Frankl, sorprendente. È e sarà ricordato non certo per le sue scalate, ma come uno dei più eminenti psichiatri del Ventesimo secolo. Eppure, come vedremo, Frankl teneva in modo davvero speciale alla sua attività di alpinista.
Fin da giovanissimo avevo mostrato intelligenza vivissima e spiccato interesse per la psiche umana. Vienna era allora la capitale mondiale della psicoterapia. Frankl, studente liceale, iniziò una lunga corrispondenza epistolare con Sigmund Freud[2]. Al termine delle superiori si iscrisse alla facoltà di medicina e divenne allievo di Alfred Adler, già collaboratore di Freud da cui si era staccato per fondare un diverso sistema terapeutico.
Ben presto però Frankl si rese conto che l’idea di uomo dei suoi maestri, di cui pur riconosceva la grandezza, era riduttiva e precocemente diede vita alla “logoterapia”, la terza scuola viennese di psicoterapia dopo la psicanalisi freudiana e la psicologia individuale di Adler.
Per tutta la vita approfondirà e diffonderà questo sistema terapeutico, che davvero ha “riumanizzato” la psichiatria. Oggi le Società di logoterapia sono diffuse in tutto il mondo.
In un’epoca di spersonalizzazione e disumanizzazione, Frankl individua l’origine di un numero sempre maggiore di nevrosi nell’incapacità di trovare un significato valido alla propria vita, quello che definisce il «vuoto esistenziale». Frankl era fermamente convinto che l’essere umano, più che dal bisogno, è mosso dal desiderio di significato.
Una “vita significativa” per Frankl è una vita ricca di compiti; dove il compito è un appello alla nostra capacità di rispondere ai problemi che la vita ci pone, nella convinzione di poterli risolvere. È proprio in una vita così che l’uomo può sperimentare la sua libertà, in quanto si riconosce libero di agire facendo perno sulle sue risorse, anche se ciò “comporta uno sforzo e proprio perché comporta uno sforzo”.
Ogni vita ha senso, anche nelle situazioni più estreme o dolorose. Di questo Frankl fu costretto a fare esperienza diretta.
Di famiglia e di fede ebraica, tra il 1942 e il 1945 peregrinò per i campi di sterminio nazisti, sperimentando in sé e nei suoi compagni la verità delle sue intuizioni. Tornato a Vienna apprese con sgomento che tutta la sua famiglia, compresa la giovane moglie, era stata sterminata.
In nove giorni scrisse Uno psicologo nei lager, che il filosofo Gabriel Marcel, nell’introduzione all’edizione francese definì «una testimonianza, non diciamo unica, ma di qualità eccezionale, e al cui cospetto molte altre appaiono solo aneddotiche». A 75 anni di distanza l’eco di questo libro è tutt’altro che spento: tradotto in 33 lingue, solo negli Stati Uniti ha venduto più di 10 milioni di copie[3].
Gordon W. Allport, docente di psicologia ad Harvard (dove anche Frankl insegnava come visiting professor), lo giudica «un gioiello di narrativa, puntato sul più profondo dei problemi umani».
Dopo la liberazione, Frankl è stato Primario del dipartimento di neurologia del Policlinico di Vienna per 25 anni. La Logoterapia si è diffusa in tutto il mondo e Frankl è stato chiamato a tenere conferenze in centinaia di università. Ha pubblicato 32 volumi e moltissimi studi.
Anche per questo è sorprendente come, in una vita così densa, l’alpinismo sia stato tanto caro a Frankl.
Tutto era iniziato quasi per caso: nessuno, nella sua famiglia, praticava questa attività. A 17 anni (era il 1923) accompagnò un amico alla parete Mizzi Langer, una cava abbandonata alle porte di Vienna, per fargli sicurezza dall’alto. E si rese conto di soffrire di vertigini. Ma, coerentemente al suo carattere, anziché demordere scelse liberamente di combatterla.
L’antisemitismo aveva radici antiche nell’alpinismo austriaco, almeno dal 1891. Frankl si iscrisse così alla sezione Donauland, contraria alla politicizzazione e che in quegli anni accolse quasi tutti gli alpinisti di origine ebraica. Qui conobbe Rudolf Reif, che divenne suo mentore e compagno di cordata e con il quale ottenne il brevetto di guida alpina[4].
Nel 1938 Reif emigrò in Cina e l’alpinismo fu formalmente proibito agli ebrei. «Quando per un anno non potei fare scalate perché dovevo portare la stella di David sognavo di scalare montagne. E quando il mio amico Hubert Gsur mi convinse e osai arrampicarmi sulla Hohe Wand senza la stella di David, non potei fare a meno di baciare letteralmente la roccia, mentre ci arrampicavamo sulla parete (ci eravamo decisi a scalare il Kanzelgrat)»[5].
Quando l’ipotesi della deportazione si fece sempre più concreta, scrisse la prima stesura di uno dei suoi libri fondamentali, Ärztliche Seelsorge[6], nella speranza che almeno gli sopravvivesse la quintessenza della logoterapia. All’inizio del calvario, cucì il manoscritto nella fodera del cappotto, ma gli fu presto sottratto. «Al mio arrivo ad Auschwitz dovetti gettare via ogni cosa; gli abiti e i miei ultimi averi, fra cui la cosa di cui andavo più fiero, ossia il distintivo del Club Alpino Donauland, che mi accreditava come guida alpina»[7].
Nella sua testimonianza, Frankl descrive bene le fasi psicologiche attraverso cui passa un deportato e le strategie di sopravvivenza. All’inizio, naturalmente, è colto da un terribile shock, al quale segue «un altro sentimento: curiosità. Conosco questo stato d’animo, per averlo sperimentato, come reazione fondamentale a certe condizioni difficili, anche in altre circostanze. Sempre, quando mi son trovato in pericolo di vita, cadendo per esempio durante una scalata, negli attimi (o più probabilmente, nelle frazioni di secondo) in cui si svolgeva tutto, provavo una sola sensazione: curiosità. Curiosità di sapere se me la sarei cavata o no, se ne avessi ricavato una frattura cranica o altre ossa rotte, e così via»[8].
Michael Holzer e Klaus Haselböck, in un bel recente libro proprio su questi temi, frutto di ricerche e di molti colloqui con Eleonore Katharina Schwindt, la seconda moglie di Frankl, scrivono: «In modo semilegale tenne anche delle conferenze per i prigionieri disperati […] Due dei temi delle sue conferenze li scelse probabilmente per mantenere vivo anche un po’ di ottimismo: “Psicologia dell’alpinismo” e “Rax e Schneeberg”»[9].
Queste ultime sono due montagne che si fronteggiano, separate dalla Höllental. Si trovano circa 80 chilometri a sud di Vienna; soprattutto l’altopiano del Rax è stato il “luogo del cuore” di Frankl.
Nel 1927 era stata inaugurata una cabinovia che portava direttamente all’altopiano. Gli piaceva soprattutto la via Drei-Enzian (oggi ribattezzata “via Viktor Frankl”), che saliva con frequenza, tanto che «lo scrittore viennese Karl Lukan ricorda un’annotazione spiritosa lasciata da un altro scalatore [sul libro di vetta]: “Facciamo richiesta di un quaderno per l’uso personale di Viktor Frankl”»[10].
Gli piaceva poi trascorrere la notte successiva nella locanda della stazione a monte, dove gli veniva riservata sempre la stanza n° 2. Dopo la sua morte non viene più affittata.
L’amatissima Elly, che aveva sposato nel 1947, condivideva questa sua passione e tutte le volte che potevano, scalavano insieme. Riferendosi al primissimo dopoguerra, ha affermato: «Penso che senza l’arrampicata Viktor non sarebbe sopravvissuto. Per lui è stata indispensabile, dopo tutto quello che aveva vissuto. Era bello vedere che era di nuovo in grado di ridere, di gioire per qualcosa. In montagna si trasformava, diventava un altro. Era felice, tornava a essere semplicemente Viktor»[11].
Negli anni Cinquanta, forte di una situazione professionale ed economica più stabile, gli è possibile viaggiare. Anche per quanto riguarda l’alpinismo, può ampliare il suo raggio d’azione. Comincia a frequentare non più solo le montagne vicine a Vienna, ma in tutta l’Austria e oltre. Le Dolomiti diventano la meta preferita per le vacanze familiari, anche dopo la nascita della figlia Gaby.
In quegli anni Frankl comincia a essere chiamato in molte università dei cinque continenti. «Elly Frakl ha raccontato che suo marito, quando gli proponevano una conferenza, decideva in base a criteri molto semplici: “Il compenso che riceveva per una conferenza, il giorno dopo lo metteva nelle mani di una guida alpina. Non importava dove ci trovassimo, c’erano sempre montagne raggiungibili, ed è sulla base di questo criterio che Viktor ha sempre scelto dove andare a parlare”»[12].
«Non ho scalato soltanto le Alpi, ma anche l’alto Tatra […]. Sono stato anche sul Tafelberg a Kapstadt, quindi mi sono arrampicato in Sud Africa, per via di una relazione ufficiale che ho dovuto tenere in occasione del giubileo dell’Università di Stellenbosch. La mia guida fu il presidente del Club Alpino sudafricano. Infine Elly e io fummo, per puro caso, i primi allievi della Scuola di roccia della Yosemite Valley in America, che era stata appena inaugurata»[13].
Il passare dell’età, e la conseguente diminuzione delle forze fisiche, può essere compensata dall’accresciuta esperienza alpinistica e dall’apprendimento di tecniche più raffinate. Frankl ne era consapevole.
Nei suoi frammenti autobiografici ha scritto, con un sorriso: «Non trovo nulla di male nell’invecchiare. […] A questo proposito mi viene in mente un episodio accaduto durante una scalata della parete Preiner: il capo spedizione sull’Himalaya Naz [Ignaz] Gruber mi faceva da guida e, mentre se ne stava seduto su uno spuntone di roccia, mi assicurava con la corda e mi faceva avanzare. A un certo punto esclamò: “Sa, professore, quando la guardo scalare, non se la prenda eh, ma vedo che non ha proprio più la forza, eppure riesce a compensare questa carenza con una tecnica molto raffinata; devo proprio dirlo: lei potrebbe insegnare ad arrampicare”. Scusate se è poco, soprattutto se detto da uno che ha scalato in Himalaya; non dovrei forse montarmi la testa?»[14].
Frankl non ha mai azzardato difficoltà eccessive, perché consapevole che altra era la sua missione nel mondo e anche perché non aveva il tempo per un allenamento costante. «Mi riesce facile parlare, mentre lo scrivere mi costa molto sacrificio. Quante domeniche di tempo splendido sarei andato volentieri a fare scalate, e invece sono rimasto a casa, seduto alla mia scrivania, intento a limare un manoscritto!»[15]. In effetti i suoi libri, anche i più tecnici, sono molto ben scritti; e, normalmente, brevi. Era il ‘perfezionismo’ di cui parlava Saint-Exupéry: “La pienezza non sta nel fatto che non vi si può più aggiungere nulla, bensì nel fatto che non vi si può togliere niente”.
Non poté realizzare il suo sogno di una “prima”. «Cosa voglio di più? Posso dirlo con molta precisione: mi sarebbe piaciuto essere il primo a scalare una vetta. Una volta fui invitato dal mio compagno di cordata Rudolf Reif a una scalata mai tentata prima; non potei però accettare, poiché non potevo prendermi vacanze dall’ospedale Am Steinhof»[16].
Frequentare la montagna, non solo le pareti, è stato per lui un modo per dare equilibrio tra impegno intellettuale e impegno fisico. «Oltre a ciò, io vado in montagna (come altri nel deserto) per concentrarmi, in passeggiate solitarie sull’altopiano del Rax. Quasi non ci sono risoluzioni o decisioni importanti che io non abbia concepito e preso lassù, durante le mie camminate solitarie»[17].
Nel 1987, Frankl, che aveva allora 82 anni, fu invitato a tenere un discorso in occasione dei centoventicinque anni del Club Alpino Austriaco. Disse, tra l’altro: «Quando noi, i più vecchi tra noi, noi che abbiamo superato la soglia del nono decennio, guardiamo indietro alle esperienze che ci hanno donato montagne, pareti e creste, allora potremmo sentire il cuore pesante; ma queste parole di un poeta [Robert Hamerling] ci consolano: “Ciò che hai vissuto nessuna forza al mondo può sottrartelo”. Io stesso direi che siamo riusciti a salvarlo nell’essere passato, e l’essere passato è comunque ancora un modo di essere, forse addirittura il più sicuro; infatti niente e nessuno può intervenire a posteriori, può trasformarlo in “non accaduto”, può cancellarlo dal mondo: resta protetto dal suo essere passato, viene conservato e pertanto protetto dalla fugacità. Diciamo che in genere vediamo solo, se così posso dire, i campi di stoppie della fugacità. In questo modo però non vediamo i fienili pieni dell’essere passato, nei quali già da tempo abbiamo riposto il nostro raccolto esistenziale: le opere che abbiamo creato, i gesti che abbiamo compiuto, gli amori che abbiamo vissuto, e le sofferenze che abbiamo sopportato con dignità e coraggio»[18].
Lo psichiatra e teologo Giambattista Torello, nella Prefazione alla prima edizione italiana di Uno psicologo nei lager, scrisse: «Viktor E. Frankl resterà nella storia della psichiatria come terapeuta del “male del secolo XX”, come strenuo difensore della libertà umana contro ogni cieco determinismo scientifico-naturale, come splendido fenomenologo dell’amore, come ottimista scopritore dell’essere umano aperto alla Trascendenza».
Con arguzia, Frankl apprezzava anche un’altra frase di Torello: «E non fu poi così esagerato Juan Battista Torello quando una volta scrisse sulla rivista universitaria austriaca di avere il sospetto che le ventisette lauree [19] ad honorem a me conferite non avessero ai miei occhi lo stesso valore delle due vie di roccia sulle Alpi [20], che furono battezzate Frankl-Steige in mio onore»[21].
Articolo a cura di Marco Dalla Torre
[1] Viktor E. Frankl, Ciò che non è scritto nei miei libri. Appunti autobiografici sulla vita come compito, a cura di Eugenio Fizzotti, Franco Angeli Editore, Milano 20182, p. 40. La primissima traduzione italiana di una parte di questi testi fu pubblicata, a cura dello stesso Fizzotti, in “Studi Cattolici” n° 350 (aprile 1990), alle pp. 196-207.
[2] «Presto entrai in corrispondenza con Sigmund Freud. Gli mandavo del materiale, risultato delle mie vaste letture interdisciplinari e che presumevo potessero interessarlo ed egli rispondeva puntualmente a ogni mia lettera. Purtroppo tutte le sue lettere e le sue cartoline – la nostra corrispondenza durò per tutto il periodo delle scuole medie superiori – quando arrivai nel campo di concentramento, alcuni decenni dopo, mi furono confiscate dalla Gestapo» (Ibidem, p. 51).
[3] In Italia il libro è stato per la prima volta pubblicato dalle Edizioni Ares nel 1967 e ha avuto 21 edizioni. Ora è reperibile nell’edizione 2017 di Franco Angeli con il titolo L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei lager e altri scritti inediti.
[4] «Rudolf Reif, celebre scalatore, per anni mio compagno di cordata, prima della Seconda Guerra Mondiale era capo delle guide alpine del Club Alpino dell’area danubiana» (Viktor E. Frankl, Ciò che non è scritto nei miei libri, cit., p. 34).
[5] Ibidem, pp. 40-41.
[6] Letteralmente significa “Cura medica dell’anima”. Il libro fu da Frankl riscritto dopo la guerra e presentato per ottenere l’abilitazione professionale. In italiano è stato tradotto con il titolo Logoterapia e analisi esistenziale.
[7] Ibidem, p. 109.
[8] Viktor E. Frankl, Uno psicologo nei lager, Edizioni Ares, Milano 19958, p. 44.
[9] Michael Holzer – Klaus Haselböck, Montagna maestra di vita. Sulle orme di Viktor Frankl, psichiatra e autore di Uno psicologo nei lager, traduzione di Valeria Montagna, collana “Exploits”, Corbaccio, Milano 2021, p. 81.
[10] Ibidem, p. 92.
[11] Michael Holzer – Klaus Haselböck, Montagna maestra di vita, cit., p. 15.
[12] Ibidem, pp. 147-148.
[13] Viktor E. Frankl, Ciò che non è scritto nei miei libri, cit., p. 42.
[14] Ibidem, p. 141.
[15] Ibidem, p. 128.
[16] Ibidem, p. 31.
[17] Ibidem, p. 42.
[18] Michael Holzer – Klaus Haselböck, Montagna maestra di vita, cit., p. 150.
[19] Dopo la pubblicazione di questo testo, a Frankl furono attribuite altre due lauree honoris causa, raggiungendo così l’incredibile numero di 29.
[20] Una, di V grado, fu aperta sul Peilstein dall’amico Rudolf Reif nel 1955, il quale dichiarò: «Dedicata al famoso filosofo, neurologo, docente universitario e non so cos’altro. È di tanto in tanto mio compagno di cordata e l’intitolazione mi ha fatto guadagnare quattro bottiglie di vino. Adesso cerco altre vie da potergli dedicare, dato che il vino era buono e gradirei berne qualche altra bottiglia» (Michael Holzer – Klaus Haselböck, Montagna maestra di vita, cit., pp. 41-42).
[21] Viktor E. Frankl, Ciò che non è scritto nei miei libri, cit., pp. 41-42.